MADEIRA: storia di un Grady White sfortunato

Questo articolo è scritto senza giochi di colore, quasi per rispetto verso le sorti del “soggetto” di questa storia. Il materiale fotografico è di qualità precaria poiché ottenuto con le prime fotocamere digitali in commercio, dalla risoluzione risibile rispetto agli standard attuali. Ma stiamo pur parlando di “storia”!

La ricerca costante di argomenti tecnici da affrontare in modo oggettivo ed esaustivo, mi costringe spesso alla condizione di “rifiatare” un po’, dedicando la mia attenzione a temi (o a barche) nei quali posso concedermi di essere leggermente più “autobiografico” e sentimentale del solito.

Nella vita di un diportista pescasportivo, determinate barche rimangono nel cuore per svariati motivi.

Il mio amore “irrisolto” è stato un vecchio Grady White 257 Trophy Pro, comprato per 27,5 milioni di lire da un signore in pensione che, per problemi di salute, non ebbe più modo di usarla per anni. La barca era in condizioni tanto pietose da non poter navigare, per le incrostazioni in carena e sulle eliche. Giaceva all’ormeggio di un pontile di Foce Varano, chissà da quanti anni ferma. Quando andai con mio padre a vederla fu subito amore. Le linee tradivano una gran voglia di prendere il largo- dopo una sana e profonda toelettatura, s’intende- le finestrature trapezoidali definivano tratti decisi e scolpiti, le falchette erano larghe e marmoree nonostante anni di sole e sale. I due vecchi OMC da 205cv partivano al primo colpo, e questo era già un buon punto di partenza. Quella barca ci chiedeva aiuto e nuova gloria ed in qualche modo la reverenziale suggestione di un vecchio campione un po’ acciaccato e dimenticato si fece strada in noi. In quel pozzetto sgombro e incorniciato da quelle modanature di teak screpolato dagli elementi vedevo imbarcare le mie prime alalunghe, magari una bella aguglia imperiale, e tanti dentici. Doveva essere lei. E così fu.
Il camion di un mio amico trasportatore vide il suo cassone sacrificato ad un cascame di mitili, alghe di ogni specie e forma, denti di cane e della più rigogliosa biodiversità che una carena avesse mai conosciuto.
Quella barca, dimenticata a due passi da una bricola di un canale salmastro pedegarganico, necessitava di ritrovare nuova gloria, perché avrebbe dovuto essere il mio primo fisherman americano.
Il camion finì la sua tratta nel piazzale del cantiere nautico prospiciente quello della mia azienda: avrei potuto guardarla nella pausa caffè, dalla finestra degli uffici, immaginando come sarebbe stato solcare il mare formato di levante, che qui dalle nostre parti si fa teso dopo mezzogiorno, tanto da schiumare e da far desistere molti di noi dall’uscita pomeridiana.
Dopo un briefing di un paio d’ore attorno a quel relitto molto promettente, avemmo una esatta idea di come procedere, consapevoli che non si sarebbe potuto preventivare alla lettera ogni lavoro necessario poiché, con le barche molto datate e trascurate, i nodi salgono al pettine man mano che questo scorre…
Grosso modo, comunque, era evidente dover partire dalla carena, che sarebbe dovuta essere privata dell’accumulo di detriti che la infestavano, per vedere se vi fossero eventuali aree affette da osmosi. Dopo la pulitura dell’opera morta, quella carena hunt emerse in tutta la sua potenza e bellezza, dandoci la carica necessaria per passare al gioco duro: era giunto il momento di aprire le viscere dello scafo per controllare lo stato di impianti e serbatoio carburante.

L’inizio della rinascita del Madeira, barca sfortunata alla quale sono emotivamente legato.

E così fu: appena sbarcati i due motori, potemmo accedere alla paratia di separazione tra la cala macchine e l’area di alloggiamento del serbatoio. I legni delle traverse sembravano non aver assorbito acqua ed essere integre. Quindi procedemmo col rimuovere il pagliolo del pozzetto che ci avrebbe svelato un serbatoio in alluminio parecchio compromesso, corroso e bisognoso di interventi tanto esosi da incoraggiarne la sostituzione. Il capiente serbatoio (980L, perché questo Trophy Pro era dotato dell’estensione opzionale della riserva di carburante, che nella versione standard era di 600L) fu trasportato presso un’officina specializzata in serbatoi su misura come campione per realizzarne uno nuovo, stavolta in acciaio inox. Nel frattempo che il nuovo serbatoio ci fosse consegnato, approfittammo per ripulire tutta la parte di sentina sottostante il serbatoio, unica occasione che avremmo avuto prima di rialloggiare il nuovo. Con l’occasione notammo che la traversa di rinforzo del pagliolo asportabile (che scoprimmo essere rinforzato per l’eventuale alloggiamento della sedia da combattimento) era danneggiata e provvedemmo alla sua sostituzione non prima di aver impregnato la nuova traversa con resina epossidica, per scongiurarne l’assorbimento accidentale di acqua.

Il caos a bordo che precedette lo sbarco del serbatoio carburante originale.

Fu poi la volta dell’ impianto elettrico: interamente sfilato e ricomposto di sana pianta con nuovi cablaggi, canalone e connettori, salvando unicamente gli interruttori ed i comandi a vista, per rispettare in toto l’originalità della barca, seppur sottoposta ad un restauro profondo. Durante il refitting dell’impianto elettrico avemmo modo di ricostruire la storia della barca tramite aggiunte, mutilazioni e modiche arrabattate nel corso degli anni.. un po’ come, quando si abbatte un grosso albero, se ne può leggere la sua età contando gli anelli nella sezione del suo tronco!

Dopo l’impianto elettrico, toccò ai legni di interni ed esterni. Di modanature in teak i vecchi Grady White ne avevano parecchie. Le condizioni in cui si presentavano erano discrete, senza crepe o scheggiature di rilievo, ma evidentemente chi li aveva manutenuti qualche anno prima aveva utilizzato un impegnante errato, perché la tonalità era omogenea e tendente al grigio/marrone, anziché quella tipica del teak. Una volta applicato lo sverniciatore, dopo la carteggiatura, emerse il colore originale del legno, che avrebbe donato un aspetto più “fresco” e piacevolmente anni ’80 a quello che stava diventando, giorno dopo giorno, il mio primo fisherman americano.

Lo step successivo fu sostituire i supporti a molla danneggiati, montati su tutte le ante dei gavoni, nonché sul tambuccio di accesso alla cabina.

Dopodiché passammo agli interni: smontati i pensili in legno, restava da rifare le tappezzerie: scegliemmo un bel tessuto piquet fasciato bianco/blu, che donava, tra l’altro, più luce al sottocoperta rispetto alle originali foderine in turchese. I portabicchieri in nylon furono sostituiti con degli altri in acciaio inox, molto belli oltreché “maltrattabili” appoggiandoci all’interno piombi, coltelli od ogni altro oggetto contundente di sorta, senza timore di potervi arrecare il benché minimo danno. Ovviamente, la toilette esistente fu conferita ai rifiuti non riciclabili, a favore di una nuova toilette marina. Le moquette dei cielini erano integre e fu sufficiente una sanificazione a vapore per riportarle all’antico splendore. Un intervento di ripristino delle sigillature in silicone delle finestrature frontali fu reso necessario da un alone che da un angolino si estendeva e lasciava intuire una infiltrazione. Lavoro che comportava solo pazienza e mano ferma nel “tirare” il silicone che faceva da tenuta con il cristallo (VERO CRISTALLO TEMPERATO… ah gli americani!!) nonché da guarnizione per la cornice dell’infisso. All’epoca, come si può notare nelle foto , Grady White non adottava ancora gli oblo’ stondati, ma vere e proprie finestrature, alcune delle quali scorrevoli. L’ampiezza e la luminosità che tali finestrature conferivano agli interni era tale da rendere opportuno il montaggio di tendine (ovviamente in tinta con le foderine), che rendevano il piccolo ambiente una chicca persino per la più scettica delle donne!

I tendalini furono ripristinati cercando di conservare le stoffe originali, ancora in buone condizioni. Furono sostituiti, invece, i trasparenti, con dell’ottimo Strataglass, costoso ma durevole. Solo l’ aft curtain (il tendalino posteriore provvisto di “porta” avvolgibile) non essendo previsto in origine (era un optional) fu realizzato con del tessuto che non si abbinava granché al contesto, ma recuperare il tessuto blu originale fu impossibile, tanto più che il desiderio di vederle solcare il mare era pressante!

Nel frattempo i motori furono pronti per il reimbarco: unici particolari che ci fecero slittare di una settimana l’operazione furono i pistoncini del powertrim, che OMC montava proprio sui supporti motore. recuperare gli o-ring originali fu un’impresa da topo di… officina. Ricordo ancora il costo esorbitante di quei 4 o-ring del diametro di circa 5cm cadauno, ancora imbustati nella confezione originale alla modica somma di 185.000 Lire! Spendemmo più per quei quattro anelli di gomma che per i riser… :-O

I metalli furono riportati a lucido ad eccezione dell’alluminio dell’hard-top, che presentava inevitabili infiorescenze di corrosione dovuta alla veneranda età della barca. Utilizzammo comunque un pulitore per leghe metalliche che ridiede una certa lucentezza ai tubi, lasciandovi anche uno strato idrorepellente che durava per circa un mese da ogni applicazione.

Il sipario di questa bellissima mia esperienza calò bruscamente, come la saracinesca di una finestra che si abbassa di colpo. Ed affacciato a quella finestra c’era un ragazzino che osservava da lontano la sua barca che riprendeva ogni giorno sempre più le sembianze di una barca bella, solida e sicura.

Quella finestra non si sarebbe mai più aperta.

Il ragazzino quel giorno uscì dalla porta per andare a vederla come ogni pomeriggio dopo i compiti e ci trovò un rogo. Lo scafo era ridotto ad un’unghia di plastica disciolta, ancora appoggiata sui supporti.

La sensazione che provai era di morte interiore e di svuotamento. L’odore acre della vetroresina fusa mista a quello dei madieri in legno, lo ricordo ancora oggi, mentre scrivo.

Tutti gli sforzi e l’entusiasmo che mettemmo io e mio padre in ogni minimo dettaglio di quel restauro andarono in fumo con il Madeira, la nostra barca sfortunata che non rivide mai più il mare.

Voglio ricordarla così, in questa foto scattata pochi giorni prima del varo che le promise una nuova vita, ma che la consegnò alle fiamme di un incendio.

Sembra esagerato anche solo pensarlo, ma chi ama il mare e la navigazione vede e “sente” la barca come un’estensione di se stessi. Il mio libro Le 11 buone ragioni per NON comprare una barca presenta una negazione nel titolo soprattutto per causa di questa esperienza che mi ha segnato profondamente.

Dopo il Madeira di barche ne ho avute diverse, ovviamente, ma il senso di attaccamento ad una “creatura” alla quale promisi nuova vita, ma che non ha più visto il mare, mi pervade ancora oggi. Un po’ come il cacciatore che perde prematuramente il suo ausiliare, io porto dentro un lutto indelebile, che mi ha insegnato molto.

Questo lutto mi ha portato a studiare la materia nautica molto più approfonditamente, fosse anche per fugare ogni futuro rischio a me stesso come a chiunque a me si rivolga per una consulenza od un parere su una barca usata.

Questa storia mi ha anche portato ad una chiara affezione per il marchio Grady White; Cionondimeno, il libro Fisherman Americani deve la sua esistenza anche e soprattutto a questa esperienza, che mi hanno spinto e dato passione in un’attività diametralmente distante da quella che prima svolgevo.

Mi auguro che la pazienza vi aiuti a leggere queste righe fino all’ultima, perché ci ho messo un bel po’ del mio cuore.

Buon Mare a tutti.

Dr. Benedetto Rutigliano
Autore di Fisherman Americani
Autore di “Le 11 buone ragioni per NON comprare una barca (ed una per farlo)”
Autore di “La Barca da Pesca Perfetta- Guida sintetica” eBook
Scrittore per la rivista Pesca in Mare