Eterno dilemma: aprire il mare o sfiorarlo?
Nella storia della nautica specialistica (quella dei fisherman, appunto) diverse filosofie di approccio all’elemento acqueo si sono avvicendate, talvolta intersecandosi, talaltra procedendo in parallelo. Alcuni scafi sono noti per solcare il mare, producendo scie profonde e muovendo una grande quantità d’acqua. Questi sono scafi spesso più “bagnati” di altri, ma anche con maggior tenuta e morbidezza sull’onda. V’è da dire che, se uno scafo resta in costante contatto con l’acqua, avvantaggia l’equipaggio quanto a comfort in navigazione, poiché gli impatti sono molto limitati, ma svantaggia le tasche, poiché la maggior resistenza all’avanzamento dissipa molta energia, e dunque carburante. Il Cary 32 è un esempio di scafo mangiamare… con qualche schizzo di troppo. Ma le sue capacità nel mosso fanno perdonare questo difetto, che per molti è una concessione naturale a grandi virtù. Viceversa, uno scafo in grado di “veleggiare” leggero di cresta in cresta (finché le condizioni di moto ondoso lo permettano, si intende…) oppone molto poca resistenza, poiché la superficie costantemente bagnata è di molto inferiore rispetto al caso precedente, dunque è tendenzialmente più efficiente in termini di litri/miglio consumati, ma presta il fianco in condizioni di mare formato. Questa è solo teoria, però. La pratica mette sul tavolo variabili che mescolano le carte, dimostrando tutto ed il contrario di tutto quanto detto sin qui. I cantieri dediti alla produzione di fisherman di gamma media e premium sono in perenne ricerca del giusto mix di queste stesse variabili, che rendono una barca più o meno morbida sull’onda, più o meno efficiente, più o meno esigente in termini di potenza installata. In passato ho affrontato il tema delle carene VDH o Variable Deadrise Hull (leggi qui ) adottate da vari cantieri, come Seacraft, Sailfish, Robalo, con alcune personalizzazioni: questo è un esempio di ricerca del compromesso tra tenuta di mare…






